PRECARIATO: UN “EFFETTO COLLATERALE “ del nostro modello di sviluppo Uno spettro si aggira per l’Europa .Tormenta i sogni dei privilegiati,asserragliati nelle proprie lussuose dimore;semina il dubbio tra i fedeli del dio mercato;fa tremare i direttori di quei giornali e telegiornali che quotidianamente propinano un’immagine del nostro mondo rassicurante ed analgesica. E’ il fantasma del disinganno che una crescente massa di persone sta provando: sono sempre più numerosi,infatti, quanti non riescono a trovare una collocazione stabile e dignitosa nel mondo del lavoro. L’aggettivo PRECARIO designa tutto ciò che è incerto,provvisorio,temporaneo;l’etimo è di origine dotta, derivando dal latino precariu(m),”ottenuto con preghiere,che si concede per grazia “ ( prex in latino significa appunto preghiera ).Non a caso forse,i nostri giovani sono ormai convinti che il lavoro non sia un loro diritto,garantito dalla Costituzione e dalle leggi,ma una “grazia ricevuta”,per ottenere la quale occorre,appunto, PREGARE qualcuno più potente perché acquisti la loro fatica,sia pure a poco prezzo. Dignità,addio. Il precario non gode di un rapporto di lavoro continuativo: non ha certezze circa il proprio futuro; non dispone di un reddito che gli consenta progetti per la propria vita o spese superiori alle necessità della sopravvivenza quotidiana; è costretto ad accettare contratti a termine,lavoro interinale,parasubordinato,part-time,nonché vere forme di lavoro nero,invisibile a chi dovrebbe far rispettare le leggi. Tutto in norme della “flessibilità”, che garantirebbe una migliore rispondenza delle imprese alle esigenze del mercato internazionale. Già ,la flessibilità. Parola magica nelle intenzioni dei teorici del nuovo mondo del lavoro: un mondo senza garanzie per nessuno,nel nome del “merito”,del profitto, del libero mercato. Il dogma della flessibilità rende accettabile il fatto che un lavoratore non resti troppo a lungo nel proprio posto di lavoro,ma muti più volte le proprie competenze,in un’ottica di mercato: il mercato è il nuovo paradiso terrestre ,nel quale offrire le proprie capacità al miglior offerente. Una tale compravendita delle abilità lavorative garantirebbe il successo dei migliori,il vantaggio delle aziende e il progresso della società tutta,la quale si avvantaggerebbe del libero gioco della concorrenza tra lavoratori e tra imprese;un po’ come avviene in natura,dove i migliori sopravvivono perché hanno le caratteristiche adatte a sopravvivere in un determinato ambiente,con un vantaggio collettivo per la specie e per la vita del pianeta. Concezione darwiniana applicata alla società umana:Ne sarebbe forse contento Konrad Lorenz,che riteneva di comprendere il comportamento umano studiando le oche selvatiche. E pensare che simili dottrine,spacciate per novità dalla fine degli anni Settanta del Novecento,sono in realtà vecchie di centosessant’anni! Risalgono all’epoca della seconda rivoluzione industriale, quando vennero perfezionate quelle dottrine filosofiche,scientifiche ed economiche destinate a spianare la strada all’ideologia del libero mercato. Un’ideologia in base alla quale il progresso della società umana sarebbe favorito dal libero gioco delle attività economiche,industriali,finanziarie,senza alcun intervento dello Stato per limitarle o per guidarle. Come tutte le ideologie,dunque, anche l’ideologia liberista si base su un assioma indimostrabile,acriticamente assunto,fideistico: quello secondo cui l’economia,lasciata a se stessa,si regolerebbe da sola,raggiungendo comunque un proprio equilibrio.Idea che non sarebbe neanche del tutto sbagliata,se non trascurasse il fatto che questo equilibrio viene raggiunto a prezzo del sacrificio di un numero enorme di vittime: tutti coloro che, nel libero pollaio del mercato globale,non sono libere volpi. Ad esempio,disoccupati,sottoccupati,precari Nel nostro meraviglioso e fantasioso Paese,tra l’altro,i salari sono in media più contenuti rispetto a quelli della media dei lavoratori dell’Unione Europea,sia in senso assoluto che come potere d’acquisto; questo fa sì che il lavoratore precario,quando lavora e guadagna,non percepisca abbastanza reddito da poter accumulare somme di denaro che gli consentano di affrontare con sufficiente serenità lunghi periodi di disoccupazione.Di conseguenza,il nostro precario si sentirà costretto ad accettare qualsiasi altro lavoro,anche se ancor meno remunerativo,anche se ancor più “flessibile” del precedente. Un meccanismo vizioso,,un circolo infernale da cui è pressochè impossibile uscire. In Francia,in Germania e nel mondo anglosassone,malgrado l’ideologia liberistica imperante,la situazione è ben diversa: appunto perché vi è presente la mano regolatrice dello Stato,quanto meno sotto forma di controllo della legalità( parola sconosciuta o odiosa per molti esponenti del nostro ceto imprenditoriale e politico). La precarietà presenta comunque innegabili vantaggi. Non per la collettività,ovviamente,né per la maggior parte della popolazione.I vantaggi sono tutti per quanti traggono profitto e potere dalla diffusa precarietà. Mi spiego meglio.Maria Pia si laurea in Scienze Politiche con il massimo dei voti e la lode; chi l’assumerà,magari affidandole mansioni del tutto incongruenti con il suo titolo di studio,saprà di avere al proprio servizio una persona di grande spessore culturale,senza però essere obbligato a retribuire il valore della sua cultura.Potrà così pagarla poco,tenerla sotto la costante minaccia della disoccupazione,e sfruttarne le consistenti capacità intellettuali ed espressive per farla lavorare ,poniamo,in un call center: una laureata che risponde al telefono per ore,con paga bassissima e nessuna garanzia. Per la società uno spreco enorme di risorse,soprattutto se pensiamo al denaro che la collettività ha speso per far studiare Maria Pia; per il privato “datore” di lavoro un investimento sicuro e a poco prezzo,con zero rischi. Tanto è vero che ,da anni ,una certa parte politica spinge per abolire il valore legale dei titoli di studio: così da cassare per legge qualsiasi possibilità di tutela e di contrattazione per chi in Italia è tanto illuso da credere di poter cambiare status sociale studiando e potenziando la propria cultura. Per i “datori” di lavoro di cui sopra,evidentemente,la pacchia non è mai abbastanza. Nel nome della libera volpe e del libero pollaio. Altra manna per la volpe: le partite IVA.Troppo spesso i lavoratori subordinati sono costretti dalla controparte padronale ad aprirsi una partita IVA,per figurare di fronte al fisco quali liberi professionisti; in tal modo le aziende che li assumono non devono caricarsi di nessun onore previdenziale nei confronti dei lavoratori. Evasione contributiva pura e semplice. Partite IVA che non sono tali,in quanto non garantiscono alcuna redditività; lo sanno bene le banche,pronte a chiudere le porte se un precario chiede loro un mutuo esibendo la propria partita IVA. Ma quand’anche il lavoratore (per assurdo) potesse disporre momentaneamente di un salario pari a quello di un lavoratore garantito,questo temporaneo benessere non gli concederebbe certo di “metter su famiglia”. Pochi oggi azzardano un passo così importante in condizioni lavorative tanto incerte: a meno che non dispongano di un secondo lavoro,anch’esso rigorosamente nero; oppure qualora possano contare sull’aiuto della famiglia di origine.Ed ecco rispuntare il familismo, male antico in Italia,caro a certo clerico-consevatorismo di marca feudale e oscurantista. Un fenomeno dannosissimo per la nostra società,in quanto prevale nettamente sul legame dell’individuo con la comunità sociale,frantumandola; il che favorisceil perpetuarsi di meccanismi arcaici e psicopatologici,e limita il progresso culturale e sociale, generato anche dalla libertà di scelta dei figli rispetto alle decisioni e al potere economico dei padri. La recente polemica bipartisan contro i “bamboccioni “ (con sussegeuente campagna giornalistico-velinara) finge di ignorare le motivazioni strutturali che costringono i nostri giovani a non recidere mai del tutto i rapporti con i propri genitori. Ma, si sa, tutto fa brodo oggidì pur di lanciare parole d’ordine contro chi nel mercato del lavoro rappresenta la parte più debole e ricattabile,ancor più ricattabile e irresoluta se si sente pure in colpa per la propria condizione. Dietro certe campagne propagandistiche si nasconde in realtà una qualche idea inespressa secondo la quale il debole è colpevole della propria debolezza. Ben poche lavoratrici e pochi lavoratori precari escono dal celibato; non perché votati alla vita monastica o perché “ bamboccioni “, ma perché questa nostra Repubblica “fondata sul lavoro “ non garantisce loro alcun diritto, nessuna dignità,nessuna possibilità di fare progetti a media scadenza. Tanto che qualcuno dei nostri adamantini governanti (noti modelli di integrità e di generoso disinteresse) proprio la definizione costituzionale di “Repubblica fondata sul lavoro “ vorrebbe stravolgere. Del resto i coraggiosi capitani del nostrano mondo imprenditoriale preferiscono che alle proprie dipendenze lavorino precari “single”, perché privi,oltre che di garanzie , anche di impegni familiari ed affettivi: dunque comodamente licenziabili, sfruttabili,ricattabili. Per le donne, il sistema ha escogitato poi il privilegio di una discriminazione in più :l’onere di dover spesso dimostrare (con analisi illegittimamente pretese) di non trovarsi in stato interessante e di non essere passibili di diventarlo,onde risparmiare al “povero” datore di lavoro le spese del periodo di gravidanza. E’, come si vede ,una autentica falcidia di diritti sacrosanti: diritti garantiti dalla Costituzione e sanciti, per chi non lo sapesse, dallo Statuto dei lavoratori, legge n° 300/1970 che fissa le “ Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento “. Siamo forse in presenza di una vera e propria “ Soluzione finale “ del problema dei diritti dei lavoratori ? In effetti le trovate legislative sembrano espressamente voler aggirare e rendere inefficace lo Statuto dei Lavoratori. Si pensi a quella recente sull’azzeramento della giusta causa di licenziamento con l’eliminazione delle garanzie dell’art.18 di questo Statuto. Ma forse,oramai la controparte padronale non deve neanche sporcarsi le mani per esplicitare il licenziamento:le basta aspettare pazientemente la scadenza del contratto “ a progetto “ (co.co.co per l’amministrazione pubblica ), solitamente non più lungo di dodici mesi,e il lavoratore è sistemato. Se vuole, il datore di lavoro lo riassume ( pagandogli comunque il medesimo salario,senza scatti di anzianità) ; altrimenti, arrivederci e .. grazie, con un bel risparmio sulla retribuzione e sui contributi. Nessuno può chiedere conto al padrone delle sue decisioni, perché il lavoratore non era stato assunto in prova,ma per un impiego a termine.Capitalismo reale: Non parliamo nemmeno di quei lavoratori che stanno ancora peggio dei precari,perché,non avendo il diritto di esistere in quanto “ clandestini “, non possono neppure desiderare una vita da esseri umani : la schiavitù oggi in Italia esiste (come dimostrano i fatti recentemente accaduti a Rosarno ), specialmente in quelle zone del nostro Paese le cui aziende più formidabili sono multinazionali chiamate CAMORRA, COSA NOSTRA, ‘NDRANGHETA e SACRA CORONA UNITA. Del resto , chi glielo ha chiesto,a quei lavoratori , di nascere poveri in PAESI poverissimi ? Hanno voluto la bicicletta ? Pedalassero ! Molti italiani, oggi la pensano più o meno così. Non vogliono nemmeno essere considerati razzisti . Eppure ,non dobbiamo smettere di credere che viviamo nel migliore dei mondi possibili; per renderci fedeli al dogma, i media ci inondano costantemente di sondaggi e statistiche,decantan do la spettacolare salute di cui godrebbe il sistema economico italiano. Cambiando il punto di vista, si può far dire ai numeri tutto ciò che si desidera per convincere l’opinione pubblica della giustezza di una determinata azione politica. L’anno scorso c’è stata propalata una trionfalistica e patriottica notizia : l’Italia al sesto posto nel pianeta per il Prodotto interno lordo (PIL) titoli di scatola sui quotidiani e servizi entusiastici nei telegiornali. Piccolo particolare, trascurato dai notiziari di regime : considerando il potere d’acquisto nei singoli paesi,il Fondo Monetario Internazionale ci pone solamente al ventottesimo posto della graduatoria del P:I:L procapite (dati dell’ottobre 2009 : eravamo al ventesimo nel 2008). Ci raccontano che in Italia il tasso di disoccupazione non è significativamente più alto della media europea: solo il 7’4 per cento nel secondo trimestre 2009. Dimenticano però di dirci che un anno prima esso era del 6 ,7 per cento; e che nel SUD arriva al 12 per cento, ben sopra la media europea. Ci tranquillizzano vantando l’alto tasso di attività nazionale ( rapporto tra forza lavoro e popolazione) attestato sul 62,6 per cento ; non ci ricordano però che nel Mezzogiorno il dato scende al 51,2 per cento . Annunciano che la povertà in Italia non presenta particolare variazioni negli ultimi anni ; ma la notizia è monca:omette di precisare che l’indigenza è aumentata significativamente per le famiglie con almeno un figlio min ore a carico;e che dal 2003 al 2008 è arrivata al 11 per cento della popolazione residente (quasi al 23% nelle regioni meridionali ) . Ci costruiscono sicurezze illusorie,camicie di forza per i nostri pensieri . Arrivano a sostenere che l’Italia ha risentito solo in parte della crisi mondiale ; grazie,ovviamente, alla straordinaria competenza ed alla granitica probità della sua classe politica.Non spiegano i motivi per cui la economia italiana è immobile da anni,ed è in crisi da molto tempo prima del fallimento delle banche americane. Nel 1995 il reddito medio italiano procapite superava infatti quello della Unione Europea del 3’5% ; nel 2oo8 era sotto quest’ultimo del 10%. Proviamo a chiederne il perché ai saggi governanti succedutisi negli ultimi quindici anni. Noi italiani abbiamo perso quasi un punto percentuale all’anno rispetto agli altri membri dell’ Unione; i nostri salari medi sono attualmente al 23mo posto nella classifica di trenta stati dell’area Ocse ; oltre Regno Unito, Stati Uniti,Germania e Francia, ci superano persino Grecia e Spagna. Le nostre retribuzioni praticamente non sono cresciute , mentre in questi Paesi l’aumento è stato del 20% . Naturalmente il problema del lavoro italiano trova in parte spiegazione in quella che solitamente viene definita “globalizzazione “,e che è semplicemente una riorganizzazione dei processi produttivi su scala mondiale,iniziata alla fine degli anni 70. Dopo La pensano così anche molti sostenitori del capitalismo:quelli caratterizzati da onestà intellettuale ed assenza di pregiudizi.Edward N. Luttwak , per citarne uno. Imprenditore, “figlio di un industriale capitalista dallo spirito innovativo “, come egli stesso si definisce,entusiasta sostenitore dell’economia dimercato, Luttwak crede tuttavia “ nella necessità di imporre ai suoi effetti qualche forma di meccanismo di controllo “. In un suo saggio del 1998,Turbo-capitalismo ( pubblicato in Italia da Mondadori con il titolo La dittatura del capitalismo ), questo studioso di politica e di strategia internazionale individuava gli effetti devastanti della deregulation e prevedeva lo scoppio imminente di una crisi ecinomica globale dovuta alla speculazione finanziaria,alla crescita eccessiva del mercato immobiliare,dei mutui e del credito al consumo. Profezia puntualmente realizzatesi. Ne siamo testimoni. Se la situazione è questa, allora, perché continuare sulla strada suicida del neoliberismo?Anche i pochi privilegiati di oggi dovranno prima o poi fare i conti con le conseguenze dei propri comportamenti. Pertanto la perseveranza su questo cammino è controproducente per tutti. Eppure continuiamo allegramente a non porci il problema.Crollano fedi ed ideologie, ma non l’ideologia – fede unicamente e universalmente condivisa:quella del dio denaro. Una vera religione dell’’economia come lo stesso Luttwak la definisce ; un culto, di cui Ser.ge Latouche e altri riconoscono cattedrali ( le imprese ) chiesa ( le banche ) divinità ( la crescita,il denaro, il mercato), fedeli ( gli azionisti ), sacerdoti ( gli agenti di cambio ), vittime sacrificali ( imprenditori falliti,laureati disoccupati,salariati ). Dunque anche in ambito economico, in fondo, pensare liberamente significa esercitare la propria LAICITA’: La globalizzazione ha polverizzato il mondo del lavoro: ha fatto sì che un determinato prodotto non venga più realizzato in un’unica fabbrica, ma in quindici luoghi differenti.Anche la proprietà è frammentata se non più identificabile con un unico “padrone” Salari,prestazioni lavorative,orari, contratti differiscono tra aziende e aziende e persino tra dipendenti della medesima impresa.di conseguenza il rapporto di lavoro si è individualizzato. indebolendo il lavoratore ,indifeso di fronte a contrattazioni individuali in cui spesso orari e compenso vengono stabiliti caso per caso.In un sistema del genere non è il “migliore” o il “ più meritevole a spuntarla, ma il più spregiudicato, il più furbo, il più opportunista,il più docile; in Italia, spesso , le aziende privilegiano chi è raccomandato dal potente o dal MAFIOSO di turno. La frammentazione della produzione ha ristretto la visuale dei lavoratori tra le mura della ditta facendo perdere loro l’ottica complessiva,la coscienza dei propri diritti di classe,la solidarietà.Il salariato cerca difese all’interno dell’azienda ma poi si disinteressa alla politica,pensando che “ tanto sono tutti uguali “ ; e al momento della scelta elettorale non vota,oppure elegge il magnate delle televisioni che gli rende gradevole il tempo libero,o gli adoratori di ODINO,del dio Po e del campanile. Si pensa che tra pochi anni saranno due miliardi i lavoratori “ informali “ ( cioè senza diritti),su una forza lavoro mondiale di quattro miliardi. Intanto,la produttività tende a diminuire,perché i possessori di capitale non investono in tecnologie e qualità del prodotto Nessun capitalista,oggi,si sente responsabile del benessere dei propri dipendenti; nessuno più cerca di gratificare i lavoratori, di far sì che essi amino l’azienda, contribuiscano volentieri alla sua crescita, siano compartecipi del suo sviluppo.Era questo l’atteggiamento di non pochi industriali di cinquanta anni fa,come Adriano Olivetti,ma oggi il trend è ben altro.Oggi i proprietari pensano che l’azienda debba solo massimizzare il valore delle azioni. L’azienda non deve nulla ai dipendenti. Sono questi che devono molto all’azienda per averli assunti.Ma forse uscire da tutto questo è possibile.Occorre però non chiudersi nel proprio privato e riconoscere negli altri i propri stessi problemi ,allargare la propria ottica, riscoprire la solidarietà, verificare quanto sono meravigliose le capacità del nostro cervello e le energie del nostro cuore. Solo così potremo sentirci meno soli e meno impauriti di fronte al futuro,di fronte alla strada buia. E magari,le nuvole che coprono la luna potranno diradarsi,e l’ora della alba potrà sembrarci più vicina. ALVARO BELARDINELLI “LIBERO PENSIERO marzo 2010- |
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